Londra - Suona la campana dell'ultimo giro per Theresa May: o fa il miracolo nello sprint finale sulla Brexit, dopo il rinvio a doppia opzione accordatole dall'Ue, oppure - in un modo o nell'altro - dovrà passare la mano. Le conclusioni del vertice di Bruxelles hanno fissato i paletti. Concedendo alla Gran Bretagna il diritto di uscire il 22 maggio (e non più il 29 marzo) se nel frattempo la premier Tory riuscirà a ottenere da Westminster la ratifica, negata già due volte, dell'accordo di divorzio raggiunto coi 27 a novembre; o in alternativa una mini proroga limitata al 12 aprile prima di scegliere definitivamente fra il no deal e la richiesta di un rinvio a più lungo termine sorretta però da una nuova linea politica. "Il destino è nelle mani di Londra", sentenzia in ogni modo il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, non senza notare come l'Ue si prepari "al peggio" pur affidandosi alla proverbiale "speranza che è l'ultima a morire".

Una speranza che per la May sembra farsi di ora in ora più flebile. Il suo governo non è al momento nemmeno in grado d'indicare una data esatta sul terzo voto parlamentare. Il veto dello speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, dovrebbe poter cadere tenuto conto che lo slittamento introduce un elemento di novità nella mozione da presentare, ma per adesso l'esecutivo si limita vagamente a confermare in aula - per bocca del viceministro Kvasi Kwarteng - l'intenzione di andare a una nuova conta "la prossima settimana". Salvo ripensamenti. I numeri per ottenere il via libera continuano d'altronde a non esserci. Il messaggio dell'Ue, col rinvio a doppia chiave, è interpretato sull'isola come un incoraggiamento ai deputati a decidere se digerire l'intesa sul tavolo così come è o passare ad altro, magari liberandosi dell'inquilina di Downing Street. E i segnali tendono tutti verso 'la seconda che hai detto'. Il duro attacco di May al Parlamento nel discorso di venerdì alla nazione (e al popolo) è stato considerato oltraggioso da molti eletti. Non solo. Lady Theresa non pare avere leve, mentre da tutti i fronti piovono siluri: i dissidenti moderati (d'opposizione come di maggioranza) puntano a piani alternativi; alcuni falchi Tory brexiteer (e non solo) ne tornano a chiedere ormai la testa; e i vitali alleati unionisti nordirlandesi del Dup chiudono le porte al dialogo accusandola d'aver "capitolato" ancora di fronte all'Ue sul backstop, la contestata clausola di salvaguardia del confine aperto fra Dublino e Belfast. Emmanuel Macron, stando a indiscrezioni dei media, non le concede a questo punto più del "5% delle chance", oltre a rampognare i sudditi di Sua Maestà per essersi fatti abbindolare a suo dire dalle "fake news" nel referendum del 2016. Lo stesso governo Tory è costretto intanto ad accettare fin d'ora l'avvio di discussioni allargate sulla possibilità di una serie di "voti indicativi" della Camera su proposte diverse dal piano May. Uno scenario che consentirebbe a Westminster di prendere il controllo del dossier, a caccia di una maggioranza trasversale: con una corsa alla soluzione più gradita fra la proposta del leader laburista Jeremy Corbyn per una Brexit più soft con permanenza del Regno nell'unione doganale; quella per un rapporto meno stretto col mercato unico del cosiddetto modello 'Canada plus'; il no deal; e un secondo referendum. A favore del piano B - e di fatto d'un altro gabinetto condotto da un altro premier - si schierano già in un appello congiunto Frances O'Grady e Carolyn Fairbairn, boss donne rispettivamente d'uno dei maggiori sindacati britannici (Tuc) e della Confindustria (Cbi). O ancora businessmen di peso quali Richard Branson, pronto a gridare al rischio no deal (che intanto affonda la Borsa di Londra) come a "un disastro"; oppure John Griffin, secondo maggior donatore dei Tories convertito in questa fase a paladino di "un governo d'unità nazionale". Mentre il popolo Remain riprende fiato, con una petizione al Parlamento per la revoca tout court della Brexit che sfiora i 4 milioni di firme, e la grande marcia del sabato pro referendum bis di Londra guidata fra gli altri dal sindaco Sadiq Khan. Ma si rifà vivo dalla trincea opposta anche Nigel Farage, deciso a prendere il timone del neonato Brexit Party nell'eventualità in cui il rinvio dovesse davvero diventare lungo e il Regno Unito si ritrovasse paradossalmente a partecipare alle elezioni europee di maggio: "una farsa" per Theresa May; una manna per lui e per la sua poltrona.

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