Londra - Una corsa a perdifiato, sotto il cielo spesso plumbeo della Gran Bretagna prenatalizia, per decidere le sorti della Brexit e il futuro di un Regno. La campagna elettorale per il voto d'oltremanica si è chiusa: scatta il conto alla rovescia in attesa del risultato che nella notte fra giovedì e venerdì decreterà la vittoria annunciata del partito conservatore di Boris Johnson o una qualche sorpresa di quelle forze - in primis il Labour a tutta sinistra di Jeremy Corbyn - intenzionate, fra l'altro, a convocare un secondo referendum sull'uscita dall'Ue. I giochi ormai sono fatti, resta l'incognita di ciò che davvero gli elettori d'Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord segneranno sulle schede. I sondaggi, traditori negli ultimi anni, tratteggiano una maggioranza assoluta Tory: obiettivo nodale per il primo ministro in carica per mantenere la promessa (sotto lo slogan 'Get Brexit done') di portare a finalmente a casa il divorzio concordato da Bruxelles alla nuova scadenza del 31 gennaio 2020. Ma i favori del pronostico, pur ancora netti, si sono un po' rarefatti. Colpa dell'ultimo aggiornamento della maxi rilevazione condotta collegio per collegio su un campione di decine di migliaia di persone dal binomio YouGov-Mrp. Un modello che nel 2017 aveva permesso d'indovinare l'epilogo di un Parlamento in stallo (hung Parliament) al contrario di tutte le altre stime e che ora conferma i conservatori a un picco del 43%, ma con 20 seggi in meno rispetto a due settimane fa. E un parallelo incremento laburista. Dato che se lascia a BoJo un margine rassicurante di +28 rispetto al controllo della Camera dei Comuni (650 deputati in tutto, con un quorum reale poco sopra 640), non lo pone più al riparo da ipotetici scostamenti. Ecco quindi spiegato l'appello finale del premier brexiteer a "combattere per ogni voto". In particolare nei territori dell'Inghilterra del centro-nord, dove ha concentrato gli sforzi degli ultimi tre giorni, secondo i suggerimenti del mago del referendum 2016, Dominic Cummings, e di altri guru elettorali, per prendere di mira i collegi del cosiddetto 'muro rosso', storicamente laburisti quanto euroscettici.

Il sistema di voto utilizzato nel Regno Unito, sin dal XIX secolo, per eleggere i parlamentari di Westminster che compongono la Camera dei Comuni, si chiama 'first past the post'. Si tratta di un uninominale maggioritario secco nel quale, come recita la definizione in lingua inglese, passa solo il primo candidato, quello che ha conquistato più preferenze, in ognuno dei 650 collegi nei quali è suddiviso il territorio del Paese: formato da Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord.

Controlli per entrare nel Regno Unito, con visto elettronico e passaporto obbligatorio, e controlli per restarci, è la carta della stretta sull'immigrazione che BoJo, allargata dal 2021 ai cittadini dei Paesi dell'Ue e alla massa dei turisti, si è giocato durante la campagna elettorale. Secondo i piani del programma conservatore in materia illustrati oggi dalla sua ministra dell'Interno, Priti Patel, se i Tories avranno successo alle urne, introdurranno un rigoroso sistema di controllo alle frontiere del Regno - denominato Eta (Electronic Travel Authorisation) e simile all'Esta in vigore per i visti d'accesso negli Stati Uniti - a partire dalla fine del periodo di transizione post Brexit previsto per ora nel rispetto dello status quo sino al 31 dicembre 2020. In sostanza i viaggiatori senza visto permanente dovranno comunicare online i loro dati. L'obiettivo dichiarato del governo è quello d'impedire gli ingressi fraudolenti attraverso l'uso di documenti Ue, al momento quantificati in circa mille all'anno. Ma più generale la promessa è un giro di vite sul flusso migratorio complessivo, secondo il modello di filtri adottato per esempio in Australia, con una sorta di valutazione a punti delle "qualità" (talenti, attitudini, compatibilità con le esigenze o le priorità del Paese ricevente) di chi bussa alle porte d'entrata. Un modello erga omnes nel quale i cittadini europei verranno equiparati dal primo gennaio 2021 agli extracomunitari: con l'obbligo di compilazione di moduli online anche per i semplici turisti e attesa di un ok dalle autorità britanniche all'ingresso 3 giorni prima dell'arrivo in qualsiasi aeroporto o porto dell'isola. Di conseguenza la carta d'identità, utilizzabile oggi per viaggiare dal continente (e dall'Italia) verso Londra e il resto della Gran Bretagna, non basterà più: servirà necessariamente il passaporto. Gli europei sulle cui fedine gravassero condanne di un certo (imprecisato) peso potranno essere inoltre rispediti a casa in ogni momento. E, a scanso di 'imboscamenti', non mancherà un conteggio elettronico In & Out di entrate e uscite.

Corbyn sembra perdente predestinato, a cui basta semplicemente rifiutare le profezie di sondaggisti e media, sperando di ripetere la sorpresa del 2017. La base militante, a forte tasso di giovani, è in effetti ancora con lui nelle piazze battute oggi, dalla Scozia alle Midlands inglesi, fino al tradizionale e affollato comizio conclusivo di Londra. E per quanto possa non esser sufficiente, lo incoraggia a non mollare, a non rispondere alle domande su ipotetiche dimissioni post-urne, a evocare proclami di vittoria. Il messaggio di "speranza", di "cambiamento radicale", di "difesa della sanità pubblica" e "di rifiuto di accordi segreti sulla Brexit" è passato, dice, a dispetto "dell'aggressione senza sosta contro di noi" della stampa d'establishment. Mentre il suo appello si rivolge ai tanti elettori "indecisi", con l'invito a non prestare ascolto ai 15 ex deputati laburisti che oggi invitavano a non votare lui - accusandolo di "estremismo" o d'ambiguità sull'antisemitismo - e che in diversi casi son già passati armi e bagagli con Johnson. Un Johnson che al contrario "può essere ancora fermato", gli fanno eco la liberaldemocratica Jo Swinson e l'indipendentista scozzese Nicola Sturgeon, cruciali per un futuro ipotetico referendum bis sulla Brexit. A patto di mandare di traverso ai Tory il traguardo della maggioranza assoluta in tutti o quasi tutti i collegi in bilico.

Con la Brexit sullo sfondo, le spinte secessioniste si stanno alimentando tanto in Scozia, quanto nell'appartata Irlanda del Nord, dove il fuoco dei sanguinosi conflitti del passato continua a covare sotto la cenere. E dove - per la prima volta - i protestanti non sono più maggioranza numerica immutabile. Il cambiamento demografico in corso - assieme alla Brexit - rischia di provocare uno sconquasso costituzionale, avvertono diversi analisti da questo punto di osservazione. E anche così si spiega l'ostinazione gli unionisti nordirlandesi del Dup, contrari a qualsiasi uscita dall'Ue che non garantisca piena uniformità normativa fra Belfast e Londra. Nell'ultima legislatura sono stati la spina del fianco di due governi Tory: prima Theresa May poi Boris Johnson hanno dovuto subirne diktat e aut-aut. "Noi dobbiamo proteggere lo status dell'Irlanda del Nord dentro il Regno Unito - rivendica all'ANSA Nigel Dodds, leader del Dup a Westminster -. L'accordo di Boris Johnson prevede controlli doganali per le merci in transito dalla Gran Bretagna verso di noi, cosa che non dovrebbe esserci in un paese indipendente e sovrano come sarà il Regno fuori dall'Ue". Se la Brexit - minoritaria peraltro nell'Ulster al referendum del 2016 - resta per ora solo una promessa elettorale è in effetti per via dei loro no. "Ci sono persone che voglio separarci dalla Gran Bretagna. C'è stata una campagna terroristica dell'Ira per molti anni, che non ha avuto successo. Ora però c'è chi vuole raggiungere lo stesso obiettivo politicamente". Tramite l'unica via (costituzionalmente) percorribile: un doppio referendum da tenersi in contemporanea a Belfast e Dublino, come previsto dagli storici di pace Accordi del Venerdì Santo del 1998. "Esiste una cornice costituzionale entro cui il referendum potrebbe svolgersi - conferma Jess Sargent, dell'Institute for Government -. Soprattutto ora, dopo che alcuni sondaggi hanno indicato come il 50% dei nordirlandesi sia a favore dell'unificazione". Cresce infatti il sentimento di estraneità da Londra. Se due irlandesi del nord su tre si dicono convinti che il divorzio da Bruxelles renderà più probabile l'unificazione, oltre la metà del campione intervistato a settembre si sente oggi più lontano dal Regno Unito di quanto non fosse solo 5 anni fa. Una traiettoria che sembra indirizzata verso un potenziale quanto lacerante addio alla Corona.

In Irlanda del Nord la scelta politica è d'altronde polarizzata, quasi automaticamente, dall'intreccio di correlazioni tra religione e identità nazionale. Come a Belfast Nord, un collegio a maggioranza protestante in mano da sempre alla destra unionista. Ma che nel 2016 ha votato Remain e dove giovedì a farne le spese potrebbe essere proprio il leader Dodds in persona: incalzato nei pronostici da John Finucane, candidato dei repubblicani cattolici dello Sinn Fein e figlio di un avvocato ucciso da paramilitari lealisti durante la cruenta stagione dei Troubles. "La cosa interessante è che anche quelle persone un tempo spaventate dall'idea di una nuova Irlanda oggi si chiedono come sarebbe un'Irlanda unita, e come verrebbe tutelata l'identità degli stessi unionisti", argomenta Finucane, che vincendo potrebbe peraltro paradossalmente aiutare suo malgrado a Westminster il partito conservatore di Johnson: liberandolo dai 'ricatti' di Dodds e abbassando il quorum della maggioranza, visto che lo Sinn Fein boicotta il Parlamento britannico rifiutando di mandare i deputati che pure vi elegge. L'Irlanda del Nord resta intanto attraversata da tensioni anche sociali pronte a esplodere. Come testimoniano le Peace Lines, muri di separazione tra quartieri di fede opposta e simboli immobili dei ritardi del processo di pace. "Il ritorno alla violenza ci deve preoccupare - mette in guardia Ben Lowry, vicedirettore del quotidiano Belfast News Letter -. E' ancora uno scenario estremo, perché il numero di persone disposte su entrambi i fronti a riprendere le armi è modesto. Ma la rabbia resta tanta". E alle urne potrà farsi sentire.

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